LE VISITE NEL NOSTRO
PAESE DEL LEADER LIBICO
Hostess, regali e
baci: l’Italia del Muammar show
Gli undici incontri di Berlusconi con
Gheddafi tra il 2008 e il 2010: cammelli in dono e caroselli
di cavalli berberi.
Il leader libico Gheddafi con il premier Silvio
Berlusconi (Lanni) «Per dirla alla beduina: sparita la
tenda, sparito il problema» . Sono passati solo sei mesi da
quando Luca Zaia rise delle polemiche scandalizzate contro
il «Muammar Show» concesso a Gheddafi sul suolo italiano.
Sei mesi. E già si agita l’incubo che quell’eccesso di
salamelecchi riservati al dittatore libico possa esserci
rinfacciato. Un problema che non riguarderebbe solo il
governo, ma il Paese intero. Per undici volte il Cavaliere,
ricevendone in cambio l’agognato accordo sul blocco del
traffico di clandestini e qualche regalo come un paio di
cammelli (dei quali non si conosce il destino) aveva
incontrato il leader della Jamahiriya dal ritorno a Palazzo
Chigi nella primavera del 2008 fino agli sgoccioli del 2010.
Undici. Gli aveva baciato la mano in segno di ossequio.
Donato vetri di Murano. Concesso ciò che i libici chiedevano
da anni e cioè il riconoscimento, giusto, degli errori e dei
crimini commessi dagli italiani durante l’occupazione
giolittiana e più ancora mussoliniana. Già che c’era, si era
allargato. Promettendo nel marzo 2009 che si sarebbe
ripresentato qualche mese dopo a Tripoli per un’occasione
speciale: «Tornerò per festeggiare il 40 ° anniversario
della vostra grande rivoluzione».
Gheddafi e l'Italia Quel golpe militare che dalla sera alla
mattina buttò fuori dalla Libia, impossessandosi di tutti i
loro beni per circa 3 miliardi di euro attuali, ventimila
italiani. Che erano nella stragrande maggioranza del tutto
estranei ai crimini fascisti. E che da allora, ignorati se
non guardati con fastidio dagli insofferenti teorici della
realpolitik, invocano che venga riconosciuta dignità al loro
dramma. Non bastasse, in cambio dell’impegno a frenare
l’immigrazione in Italia (contrattato col pagamento di 5
miliardi di euro su cui il raìs arabo aveva rilanciato più
volte con richieste sempre più esose all’Europa, come fanno
tutti i ricattatori del mondo), il Cavaliere aveva concesso
all’amico Muammar, appunto, show indimenticabili. Come il
carosello con 30 cavalli berberi diretta tivù alla caserma
«Salvo D’Acquisto» . O la possibilità di piantare un tendone
beduino nel giardino della palazzina Algardi di villa Doria
Pamphili, che proprio per l’amico libico era stata
sottoposta a restauri per 994.923 euro. Parecchi, per un
ospite che poi dorme in tenda. O ancora la «lectio
magistralis» alla Sapienza, dove il despota tripolino al
potere da decenni senza la scomodità di elezioni, scodellò
tra gli inchini del rettore Luigi Frati indimenticabili
sciocchezze che strapazzavano l’etimologia greca: «La
democrazia è una parola araba che è stata letta in latino.
Democrazia: demos vuol dire popolo. Crazi in arabo vuol dire
sedia. Cioè il popolo si vuole sedere sulle sedie. (...) Se
noi ci troviamo in questa sala siamo il popolo, seduti su
delle sedie, questa andrebbe chiamata democrazia, cioè il
popolo si siede su delle sedie. Invece se noi prendessimo
questo popolo e lo facessimo uscire fuori, se avessimo
invece preso dieci persone e le avessimo fatte sedere qua,
scelte dalla gente che stava fuori, e loro invece sono
seduti qua, quei dieci, questa non sarebbe da chiamarsi
democrazia. Questa si chiamerebbe diecicrazia.
Cioè dieci su delle sedie. Non è il popolo a sedersi sulle
sedie, questa non è la democrazia. Finché tutto il popolo
non avrà la possibilità di sedersi tutto quanto sulle sedie,
non ci sarà ancora democrazia» .
Quindi perché mai i libici, che hanno già tante sedie senza
l’ingombro della libertà, dovrebbero «regredire» al sistema
occidentale? Per non dire del surreale battibecco con uno
studente sul tema dei diritti umani degli immigrati respinti
sui barconi, incarcerati o abbandonati nel deserto. «Come
vengono rispettati, in Libia, i loro diritti?» .
L’interprete: «Quali diritti?» . «I loro diritti» . «Quali
diritti?» . «I diritti!» , gridavano in sala: «I diritti
politici» . L’interprete si chinò sul raìs, che si scosse:
«Quali diritti?» . E si avvitò a spiegare che, per carità,
la domanda faceva onore a chi l’aveva posta ma «gli africani
sono degli affamati, non dei politici, gente che cerca cibo»
. E i dittatori? «Non ci sono dittatori, in Africa... La
dittatura c’è quando una classe sta sopra un’altra. Se sono
tutti poveri...» E sibilò: «Volete un milione di rifugiati?
Ne volete venti? Cinquanta?» Non bastasse, il satrapo spiegò
in Campidoglio, con quel che significa quel luogo non solo
per i romani ma per l’Occidente, che «il partitismo è un
aborto della democrazia. Se me lo chiedesse il popolo
italiano gli darei il potere. Annullerei i partiti, affinché
il popolo possa prendere il loro posto. Non ci sarebbero più
elezioni e si verificherebbe l’unità di tutti gli italiani.
Basta destra e sinistra. Il popolo italiano eserciterebbe il
potere direttamente, senza rappresentanti» .
Non bastasse ancora, approfittò del palcoscenico
straordinario di Roma per rastrellare centinaia di ragazze
prese a nolo per 80 euro l’una perché ascoltassero un suo
sermone maomettano («Sapete che al posto di Gesù
crocifissero un suo sosia?» ), si facessero fotografare con
in mano il Corano e magari rivelassero all’uscita di essersi
convertite all’Islam. Sembra passata un’eternità, da allora.
E un’eternità da quando, solo quattro settimane fa, Franco
Frattini citò come risposta all’incendio nei Paesi arabi
«l’esempio di Gheddafi. Ha realizzato una riforma che chiama
"dei Congressi provinciali del popolo": distretto per
distretto si riuniscono assemblee di tribù e potentati
locali, discutono e avanzano richieste al governo e al
leader. Cercando una via tra un sistema parlamentare, che
non è quello che abbiamo in testa noi, e uno in cui lo
sfogatoio della base popolare non esisteva, come in Tunisia.
Ogni settimana Gheddafi va lì e ascolta...» A cosa siano
servite tutte queste aperture ha risposto nel suo minaccioso
proclama alla nazione il figlio del Colonnello, Saif al
Islam: «Continueremo a combattere fino all’ultimo uomo,
persino all’ultima donna... Non lasceremo la Libia agli
italiani o ai turchi...»
Gian Antonio Stella 22 febbraio 2011